Mediazione ex decreto 28/10 – Disposizioni regolamentari

Il d.m. 180/10, cioè il regolamento attuativo del decreto legislativo 28/10, a pochi mesi dalla sua introduzione ha subito delle modifiche (decreto ministeriale 145 del 6 luglio 2011, entrato in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 25 agosto).

Ad una prima analisi, la maggior parte delle stesse va decisamente nel senso di un’ulteriore stretta burocratica di cui francamente non si sentiva bisogno ma che evidentemente è stata ritenuta opportuna in sede ministeriale sia (i) per meglio dare implementazione al decreto 28, sia (ii) per neutralizzare per quanto possibile il rischio di incostituzionalità che grava sulle previsioni di mediazione obbligatoria dopo il noto rinvio della questione da parte del TAR Lazio alla Corte costituzionale.

 

Le novità possono riassumersi in quattro punti.

1) E’ stato aumentato l’onere di aggiornamento a carico dei mediatori, che ora non consiste solo nel fatto di partecipare alle già previste 18 ore di training nel corso di ciascun biennio (art. 18.2, g) d.m. 180), bensì anche a 20 mediazioni, in qualità di tirocinanti;

2) I criteri di designazione del mediatore da parte dell’organismo investito della controversia debbono ora essere inderogabilmente “predeterminati e rispettosi della specifica competenza professionale … desunta anche dalla tipologia di laurea universitaria posseduta” (nuovo art. 7.5, e) d.m. 180);

3) E’ stato precisato il costo della mediazione per il caso in cui la parte chiamata non si presenti: 50 euro, che scendono a 40 per le liti sino ad euro 1 000 (nuovo art. 16.4, e) d.m. 180);

4) Sono stati largamente decurtati i costi dovuti dalle parti per l’esperimento delle mediazioni c.d. obbligatorie (di un terzo per le questioni sino a 250 000 euro, e della metà per le altre).

 

Alcune prime osservazioni, nel dettaglio.

La previsione di cui al punto 1) difetta di logica e paiono frutto di abbaglio. Se è vero che il possesso del mero certificato abilitante certo non fa il buon mediatore, non si vede a cosa servano addirittura 20 assistenze gratuite ogni biennio. La buona prassi del settore prevede un periodo di assistentato di un paio di casi; poi è il centro ADR (in realtà in un mondo meno corporativo, sarebbe il mercato ….) che valuta se uno è adatto o meno.

Ed i mediatori esperti poi che faranno? Incroceranno mediazioni in cui agiscono loro da mediatori ad altre in cui fanno da assistenti? E ciò per tutta la loro carriera? Ma non scherziamo!

Quanto al punto 2), la logica perseguita invece è coerente, peccato sia perversa. Lo si vuol capire che esser avvocati o architetti poco impatta sulla capacità di esser efficaci mediatori, e se lo fa, lo fa (come nel primo caso) quasi sempre in maniera negativa?

Quanto all’inderogabilità dei criteri, evidentemente è passato il suggerimento formulato nel parere del Consiglio di Stato. Peccato che gli automatismi usati per selezionare i giudici (che evidentemente fanno da riferimento), assai discutibilmente possono applicarsi nella selezione dei mediatori. L’obiettivo infatti, in tale secondo caso, non è quello di privilegiare una rotazione alla cieca che assicuri imparzialità, bensì quello di offrire alle parti il supporto dei migliori professionisti a disposizione.

Purtroppo, nell’impostazione del decreto 28/10 tutti i mediatori sono uguali ed è indifferente chi viene assegnato alle parti. Ma perché non lasciare, al riguardo, discrezionalità agli organismi, ed anzi calcare ulteriormente la mano in senso restrittivo? Si dubita della capacità gestionale dei centri?

Il problema è di fondo e deriva cioè dall’aver il legislatore concepito nel decreto 28/10 la mediazione (anche) come una sorta di attività consulenziale da parte di un giudice sprovvisto d’imperium. Se si vuole sperimentare in Italia tale sorta di ADR (che secondo molti, incluso ovviamente lo scrivente, evidenzia tali e tanti aspetti negativi da non meritare neanche di esser ricompresa nell’area della mediazione), almeno si lasci libero chi non crede affatto in tale approccio autoritario, a muoversi secondo i canoni più avanzati della mediazione facilitativa (e trasformativa, in particolare) liberando la relativa pratica da tutti gli inutili orpelli fissati dal d.m. 180/10 ed oggi appesantiti dal d.m. 145/11.

Punto 3).

Giusto, di principio aver fissato un costo pressoché simbolico per ottenere un mero verbale negativo. Ma perché deve intervenire un mediatore, sostanzialmente pro bono? Perché non può provvedere direttamente l’organismo (come tra l’altro aveva cominciato spontaneamente molti a fare)?

Ovvio, per poter dar modo di fare la proposta, e addirittura con parti assenti!

Valga quanto detto al punto 2).

Punto 4). Dover fissare costi “politici” è sempre difficile. Da un lato, nel nostro caso, si tratta di stabilire balzelli che per la loro entità non si possa dire impediscono irragionevolmente l’esercizio dell’azione giudiziale, dall’altro di assicurare un minimo di tornaconto a centri e mediatori. Difficile dire se dopo il taglio operato con il d.m. 145 alle già basse tariffe del d.m. 180, l’obiettivo è stato raggiunto.

Certamente, ora, mediare nelle ipotesi “obbligatorie” richiederà maggiore dedizione alla causa, visto che per prendere 1 500 euro – cioè il minimo che un mediatore mediamente esperto può costare per singolo caso – occorrerà gestire causa di valore superiore ai 250 000 euro ….

Svolgere mediazioni obbligatorie potrebbe peraltro esser considerato uno scotto accettabile, se il loro numero trainerà, come pare dalle prime statistiche pubblicate, anche un largo numero di mediazioni non obbligatorie.

Il problema però è soprattutto un altro, esula dal decreto 145, investe più in generale l’architettura della mediazione ex decreto 28/10 e consiste nell’errata visione di un compenso necessariamente basato sul valore della lite. Già è arduo stabilire tale valore e, come si saranno accorti in molti, il valore dichiarato di regola non corrisponde a quello delle reali questioni in gioco.

Soprattutto non ha un gran senso l’adozione di un sistema di scaglioni improntato allo schema giudiziario. Lo si vuol capire che un giudice rende un servizio diverso dal mediatore? Il primo infatti si pronuncia su questioni il cui valore viene sostanzialmente determinato dalle parti (anche autolimitandosi proprio al fine di contenere i costi) e palesato in modo formale (il c.d. petitum). Il secondo invece aiuta le parti a gestire un conflitto indipendentemente dalla sua quantificazione monetaria, spesso senza che questa sia manifestata. E’ per tale ragione che in genere il lavoro del mediatore viene remunerato a tempo, con degli aggiustamenti a seconda dei valori in gioco, certo, ma sostanzialmente sulla scorta dello sforzo impiegato dal mediatore.

Nel sistema italiano invece, si sono invertiti i termini: il compenso è fissato secondo valore e vi sono degli aggiustamenti sulla base di alcune variabili. Il problema è aggravato dal fatto che pure queste variabili sono ingenuamente concepite (complessità, “successo”, proposta).

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